
di Riccardo Corsetto
Il 26 dicembre del 2019 scrissi un articolo dando una lettura della possibile dinamica dell’incidente mortale che coinvolse le due giovani ragazze su Corso Francia, Gaia e Camilla. Un incidente avvenuto quattro giorni prima, il 22 dicembre, e che sconvolse la vita alle famiglie delle giovani, ma anche il Natale a tutti noi, perché in quelle ore ci siamo sentiti tutti papà e mamma di quelle ragazzine, volate via di colpo, tenendosi la mano.
Leggi l’articolo del 26 dicembre 2019
Per quelle tesi, che contraddicevano quasi tutte le versioni dei media, arroccatisi sulla versione del concorso di colpa, se non addirittura della colpa (per incoscienza) delle vittime, ricevetti sonore critiche. Ma ora, dopo la sentenza che ha comminato 8 anni a Pietro Genovese, vi spiego invece perché avevo ragione, e perché il nostro sistema non è adeguato a rispondere all’introduzione del reato di omicidio stradale. Devo farlo, però, partendo da esperienze personali.
Già mi ero occupato, sempre su questo giornale, da soccorritore, di un altro incidente molto grave, avvenuto nel 2010 sempre su Corso Francia. Il malcapitato era un motociclista colpito da una Porsche che aveva imboccato il viadotto delle Aquile contro mano. Fui tra i primi a sopraggiungere e a soccorrere il motociclista sbalzato tra rovi e rami di una buia cunetta di fronte al Parco della Musica. Non dimenticherò mai quell’uomo che mi chiedeva nella semicoscienza del trauma di dargli dei pizzichi sulle gambe perché non se le sentiva più. Nonostante lo rassicurassimo sarebbe rimasto su una sedia a rotelle per sempre. Anche quel signore abitava a Ponte Milvio, e all’epoca scrissi un articolo molto dettagliato, con le immagini e delle schede grafiche, con le manovre che aveva dovuto effettuare la Porsche per travolgerlo in quel tratto. Qualche tempo dopo mi telefonò il legale del motociclista. Mi ringraziava a nome personale e della famiglia sostenendo che quell’articolo fosse stato decisivo per l’andamento del processo. Anche in quel caso l’incidente era avvenuto nel buio, con una leggera pioggerella, in assenza di testimoni oculari.
La tendenza a trovare particolari dirimenti sugli incidenti stradali mi deve esser venuta intorno ai 20 anni. Mio padre era quasi stato ucciso in motocicletta nel frontale con un’ambulanza. Non molto prima uno dei miei migliori amici trovò la morte a vent’anni in un maledetto sabato sera. Ricordo ancora il mio trauma alla notizia: caddi a terra e quando mi rialzai compresi di essere invecchiato di molti anni velocemente. Da allora sono un pò ossessionato dalle dinamiche. Perché? Forse perché capire ci aiuta a metabolizzare e accettare l’inaccettabile.
Con mio padre andò meglio. L’ambulanza che lo investì frontale mentre viaggiava sul suo scooter provò a fuggire mentre era a terra con un edema cerebrale, uno polmonare, la milza esplosa, un dito amputato e la spalla sbalzata all’altezza dell’orecchio. Mio fratello trovò il suo mignolo giorni dopo, nella lamiera del mezzo della croce rosa parcheggiato al deposito giudiziario. Nei verbali non ce n’era traccia, e nemmeno del tentativo di fuga, documentabile, dell’autista del mezzo.
Anche lì i rilievi furono fatti con estrema approssimazione. E tutto quello che appresi sulla reale dinamica dei fatti venne da ricerche personali. Mio padre, dopo un paio di mesi di ospedale, riprese a vivere. Fu fortunato. Quando Gaia e Camilla hanno perso la vita, conoscendo il posto, e non tornandomi affatto le prime ricostruzioni giornalistiche, tornai sul posto dell’incidente, a Corso Francia.
Le testimonianze precise di alcuni testimoni in merito alla targa della Renault dell’investitore non erano riportare nei verbali. Ma come si può?
La posizione della targa non era stata refertata. Scrissi un articolo, che suscitò reazioni avverse. Ma lo scrissi perché ero sicuro di quello che alla fisica e all’osservazione non può sfuggire.
Oggi il giudice ha condannato Pietro Genovese a otto anni con una ricostruzione che ricalca l’analisi fatta in quel pezzo poche ore dopo l’incidente, partendo dalla targa dell’auto che nessuno aveva refertato. Né i vigili, né l’accusa, né i giornali avevano minimamente preso in considerazione quel dettaglio che in ogni caso doveva essere a verbale.
Questi ultimi, anzi, preferendo accreditare l’inesistente gioco del semaforo rosso, pur di scagionare l’investitore dalle proprie responsabilità. Ma quella targa, la posizione dei corpicini di Gaia e Camilla, e la posizione dell’auto di Genovese che conoscevo grazie ad alcune foto della polizia inedite e che non ho mai pubblicato per rispetto di chi me le aveva mandate, raccontavano un’altra storia. La stessa che ha portato alla condanna per otto anni Pietro Genovese. Un incidente che ci dimostra peraltro le gravi lacune della legge italiana in merito all’uso di sostanze stupefacenti mentre si è alla guida. Qualcosa su cui dobbiamo tornare in fretta a riflettere.
In Italia quando avviene un incidente mortale, molto spesso – non sempre – arriva sul posto personale di polizia non propriamente addestrato a fare indagini appropriate. Una lacuna che dobbiamo assolutamente colmare anche perché la legge nel frattempo ha istituito il reato di omicidio stradale, ma il modo di periziare il luogo del “delitto” è rimasto fermo a quando il reato non era previsto. Vi ricordate quando scrissi dell’incidente mortale del povero Matteo Barbieri? Tante domande e gravi incongruenze rimasero inevase, con il corpo del ragazzo che nessuno vide per diversi giorni. Anche lì a fare i rilievi arrivò personale che non era addestrato oppure era sbadato. E’ ora di cambiare.
Gaia e Camilla. “La roulette del semaforo rosso una bufala”. Poi è giallo del Suv sulla rampa
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