Caso Filo della Torre, parla il figlio della contessa uccisa nel ’91

Manfredi Mattei: “Il caso fu risolto grazie all'ostinazione di mio padre Pietro Mattei. Ora l'assassino potrebbe uscire prima del tempo. Continuerò la battaglia di mio padre per la certezza della pena".

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di Riccardo Corsetto

Pietro Mattei è morto venerdì. Ha perso conoscenza nel sonno ed è deceduto in ospedale senza mai riprenderla. Quando martedì ho sentito al telefono suo figlio Manfredi – che conosco da quando eravamo alle elementari – per manifestargli il mio cordoglio, lui ha chiesto di incontrarmi. “Ti devo parlare, voglio raccontarti chi era mio padre e ho bisogno di fare un appello alle massime istituzioni”.

Nel 1991, quando Alberica Filo della Torre venne uccisa all’Olgiata, la mia infanzia fu squarciata da quello che passerà alla storia come il primo giallo mediatico d’Italia. Squarciata, perché a dieci anni quel racconto del lato più violento e oscuro della vita interruppe improvvisamente i cartoni animati e l’innocenza di noi bambini. Manfredi aveva appena nove anni, e tutti i giorni saliva con noi sullo scuolabus che ci riportava a casa dopo l’ultima campanella. La televisione diceva che era stato lui a trovare la mamma ai piedi del letto. Fu per noi bambini il primo incontro reale e ravvicinato col male. Ricordo che le mie notti e i miei sonni ne furono condizionati.

Pietro Mattei era già stato “condannato” dal tribunale del primo show catodico-giudiziario italiano. Ogni giorno aspettava Manfredi alle 14.15 all’angolo tra la Cassia e via della Giustiniana. Era sempre puntuale ad aspettare che il bus si fermasse. L’abito classico, l’immancabile cravatta, la corporatura robusta mitigata dall’altezza e l’inconfondibile capigliatura canuta. Lo riconoscevo dal finestrino e poi osservavo Manfredi scendere dal bus e prendergli la mano.

Quanti di noi ragazzini ci siamo chiesti: “Possibile che quel signore elegante sia il mostro di sua moglie?”. I magistrati e lo show business avevano deciso così. Non c’erano prove né indizi, ma quella era stata per anni la teoria più facile da seguire.

Nel 2011, vent’anni dopo quell’omicidio, tutta l’Italia scopre che Alberica Filo della Torre è stata uccisa da un cameriere filippino, Manuel Winston Reyes, e scopre anche che Pietro Mattei è stato vittima di una delle più bieche e distorte inchieste della Procura italiana.

Pietro Mattei è morto, ricongiungendosi alla giovane, bella ed elegante moglie prematuramente perduta. Mattei, che da tempo merita le scuse dello Stato e dei media, è morto da inquisito per diffamazione e potrebbe essere offeso ulteriormente dal sistema giudiziario del nostro Paese.

Manfredi, per onestà ti chiedo: a chi stai dando l’intervista? Al giornalista o al portavoce di questa sezione politica?
“La sto dando all’amico, che so anche essere un attivista politico con coscienza civile. La cronaca di come si svolsero i fatti è già storia nota, non serve ripeterla. Quello che non è noto è che fra poco Manuel Winston Reyes potrebbe uscire di galera. Ha già beneficiato diverse volte di permessi premio in questi anni. Ma tra poco gli sarà concessa la libertà condizionale. Che tradotto significa sospensione della detenzione”.

Rischiamo di averlo fuori dopo nemmeno otto anni?
Esattamente. Dopo aver rovinato la vita di mio padre ingiustamente per 20 lunghi anni, lo Stato italiano potrebbe premiare l’assassino di mia madre. Winston è entrato in carcere nel 2011, incastrato al di là di ogni ragionevole dubbio dalle intercettazioni telefoniche e dalle tracce di DNA accertate su quel lenzuolo che vidi avvolto intorno al volto di mia madre, quando per primo la rinvenni insieme ad una nostra cameriera”.

Winston beccò appena sedici anni nella sentenza definitiva. Tanto vale l’assassinio di una donna e di una madre?
“La pena fu ridotta perché la difesa scelse il rito abbreviato, e inoltre gli furono riconosciute attenuanti generiche, il fatto di essere incensurato. Mentre il reato di rapina cadde in prescrizione nel 2001”.

In quella rapina Winston sottrasse circa mezzo miliardo di lire in gioielli: era il movente dell’omicidio. Eppure il filippino non pagherà nemmeno un giorno per quel reato.
“Questa è la giustizia italiana. Una donna uccisa e vent’anni di lotte e calvario di mio padre valgono 16 anni. Fra poco scopriremo che valgono anche meno. Forse 8 o 10. Mio padre Pietro ha combattuto come un leone contro la magistratura e il sistema politico e mediatico. Contro di lui si è mossa una vera e propria macchina del fango. Oggi sono qui perché ricordo quante notti da bambino ho dovuto vederlo piangere, in quel letto che l’assenza di mamma rendeva troppo grande. Era rimasto solo contro tutti. Ha cercato in tutti questi anni la verità. Non  per difendere se stesso, ma perché era consapevole che l’assassino fosse ancora libero. I magistrati avevano deciso che il colpevole fosse lui, ma non per l’omicidio, ma per quel che rappresenta una famiglia felice, che successo.”

I magistrati in Italia quando commettono errori non pagano i danni. I medici, gli ingegneri e qualunque Cristo che lavori, che sia professionista, artigiano o commerciante risponde in solido. Sono figli di un dio maggiore?
“I giudici fecero un lavoro pessimo. Avevano iniziato a far tradurre le intercettazioni di alcune telefonate di Winston, ma poi non completarono il lavoro e la telefonata che incastra il filippino, nella quale cerca di piazzare i gioielli a un ricettatore, non verrà mai tradotta. Di nove bobine di intercettazioni ne fecero tradurre tre o quattro”.

Un bambino avrebbe chiuso il caso in tre giorni.
“Mia madre non sarebbe tornata in vita, certo. Ma mio padre non avrebbe subito la gogna e il sospetto di un certo mondo, per venti anni. La sua vita fu letteralmente stravolta”.

Non si è mai arreso però. Mise una taglia da un miliardo di lire per trovare il vero colpevole.
“Non è mai davvero emersa la sua sofferenza all’esterno. Era un uomo che non esibiva, era riservato in tante cose, anche nel dolore. Gli inquirenti sono arrivati addirittura a sospettare la presenza dei servizi segreti, per operazioni di riciclaggio ed evasione fiscale che non sono poi mai stati riscontrati. Hanno tentato di far credere che mia madre fosse stata uccisa in un affare in cui aveva messo lo zampino addirittura il SISDE”.

La pista dei fondi riservasti del SISDE che gli inquirenti pensavano fossero riciclati tramite i conti di tuo padre nasce dalla frequentazione con Michele Finocchi, il super poliziotto classe ’36 che fu capo gabinetto dei servizi segreti civili dall’87 al ’91 e che nel ’93 fuggirà latitante perché coinvolto, anche lui, nell’indagine per l’omicidio.
“Michele era un amico di famiglia, i miei lo conoscevano da anni, fu uno dei primi ad arrivare a casa quando trovammo mia madre senza vita. Soprattutto nessuno sapeva fosse un super poliziotto, come sarebbe ovvio immaginare. Tutta la storia del riciclaggio non fu mai neanche lontanamente provata. Era un’invenzione senza riscontri che le sentenze hanno poi dimostrato essere menzogne. Purtroppo avevano deciso fosse lui il colpevole e batterono quella pista escludendo le altre”.

Persino Antonio Di Pietro fece una magra figura. All’epoca all’apice della fama per la stagione di Mani Pulite. Come andò?
“La signora  Emilia Paris Halfon, che mio padre frequentò sentimentalmente negli anni successivi all’omicidio, un bel giorno decise di consegnare a Di Pietro un abito che mio padre gli aveva chiesto di portare in lavanderia. C’erano delle macchie e Di Pietro corse dal Pm Cesare Martellino a portarglielo, convinto si trattasse di sangue… Annunciarono la “svolta” nel processo”.

Invece?
“Era ruggine o vernice, non ricordo bene. E Fecero tutti una brutta figura. Persino Forattini fece una vignetta storica su questa gaffe di Di Pietro”.

In quell’inchiesta ci finì di tutto: Ior, Enimont, il conto FF2927 in cui era attivo anche Paolo Badoglio, nipote del generale che cambiò casacca nel ’43. La posizione imprenditoriale di tuo padre contribuì a portare le piste investigative lontano dalla verità?
“Sicuramente. Mio padre nasce come manager della Martin Marietta, contractor statunitense. Negli anni ’70, fatto ritorno in Italia, lavora con il gruppo Caltagirone, diventando amministratore delegato della Vianini. Nel ’90 si mette in proprio nel settore delle costruzioni e dell’immobiliare. Costruisce un piccolo impero, tutto suo, e negli anni darà un tetto ad almeno 10 mila persone. Soltanto a Bergamo, insieme a Caltagirone lavorò all’edificazione di 400 appartamenti. In quegli anni la mia famiglia era unita e felice. Tutto finì il 10 luglio del 1991, quando Manuel Winston entrò in casa e la magistratura, invece di ascoltare le sue telefonate, si accanì su mio padre e fantasiose false piste”.

Che rapporti avevate con Winston?
“Quell’uomo aveva lavorato tre mesi in casa nostra, all’Olgiata. Ma mia madre aveva deciso di allontanarlo perché era ubriaco a lavoro. Si era accorta che aveva problemi di alcolismo. Il giorno del decimo anniversario di matrimonio, mentre erano in corso i preparativi per la festa che si sarebbe tenuta la sera, Winston si introdusse in casa per chiedere un prestito, e finì per portare via i gioielli. Ha dichiarato di essersi imbattuto in mia madre in accappatoio, appena uscita dalla doccia. Il resto è cronaca. L’ha colpita alla testa con uno zoccolo ferendola a sangue e poi l’ha strangolata con un lenzuolo”.

Hai dovuto vederla senza vita all’età di nove anni. Riesci ancora a ricordarla sorridente attraverso la nebbia del dramma e del tempo?
“Avevo con lei il rapporto che ogni bambino ha con sua madre. La ricordo ancora oggi per la sua eleganza. Ci tenevano molto – mamma e papà – ad essere eleganti. Mamma era la figlia dell’ammiraglio Ettore Filo della Torre e quando conobbe mio padre lavorava nel commercio. Fu un colpo di fulmine, il loro. Nel 1980 mio padre fu invitato a una festa. Allora vide questa sconosciuta e raccontava sempre di essersene innamorato a prima vista. Nell’81 si sposarono e l’anno dopo, durante il loro viaggio di nozze, fui concepito io. Nel ’84 nacque mia sorella Domitilla”.

Hai mai dubitato di tuo padre?
“Mai. Nessuno di noi in famiglia ha mai avuto dubbi sulla sua innocenza. Per vent’anni ha dato battaglia per cercare il colpevole, annullandosi in una ricerca senza sosta”.

Finalmente la svolta nel 2008…
“Grazie al Pm Francesca Loy. Mio padre aveva cercato più volte di far riaprire le indagini e per tre volte i magistrati si opposero alla riapertura. È la dimostrazione che lottare per qualcosa in cui si crede non è mai vano. I suoi sforzi furono ripagati da una donna magistrato che ha saputo fare bene  il suo lavoro. Anziché inseguire suggestive piste da spy story buone per il cinema, la Loy rimise mano a tutto, anche alle intercettazioni, disponendo che venissero tradotte tutte. Si scoprì così quello che era già a portata di mano, ovvero che Manuel Winston Reyes era il colpevole e aveva tentato di piazzare mezzo miliardo in gioielli da un ricettatore. Alcuni periti della procura furono condannati al risarcimento dei danni. Nel 2011 Winston viene condannato e subito arrestato per pericolo di fuga. Analisi moderne del DNA, che negli anni ’90 non erano affinate, consentirono inoltre di dimostrare che il sangue su alcuni reperti è proprio il suo”.

Ma anche senza le analisi era possibile incriminare il filippino per la telefonata. Hai mai incontrato fisicamente Winston. Ha provato a chiedere scusa?
“L’ho incrociato due volte nelle aule di tribunale. Ha avuto tante volte l’occasione di scusarsi, ma non lo ha mai fatto. Quando lo guardavo lui voltava lo sguardo”.

Francesca Loy che guida l’accusa nel processo Bis, chiede l’ergastolo e invece l’assassino – come già successo nel caso di Vanessa Russo, uccisa da una romena con un’ombrellata – becca appena 16 anni. La vita in Italia vale così poco?
“Anche meno. Serve una grande riforma, una rivoluzione della giustizia italiana. Certezza della pena e responsabilità civile dei magistrati. Da quanto tempo se ne parla?”

La Fondazione Alberica Filo della Torre, di cui sei segretario si batte su questi fronti da anni.
“È una battaglia che intendiamo continuare, legalmente con l’appoggio di avvocati come Giuseppe Marazzita che ci assiste, ma anche culturalmente con la Fondazione, nel nome di mia madre e di mio padre che l’ha raggiunta. Le sue lacrime notturne e quel dolore invisibile saranno la spinta di questa incessante battaglia”.

Hai parlato di certezza della pena e del rischio che Winston esca di prigione prima del tempo. Cosa ti aspetti dalla politica e dalle istituzioni?
“Faccio appello al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al ministro della Giustizia: impedite che mio padre, nell’anno della sua morte, venga offeso dalla scarcerazione prematura dell’assassino di sua moglie e della madre dei suoi figli”.

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