di Riccardo CORSETTO

L’opinione pubblica italiana sa poco delle reali motivazioni di Putin. Che non ha ragione a fare la guerra, ma delle ragioni geopolitiche le ha. Questa guerra nasce molti anni fa e bisogna risalire alla Rivoluzione russa d’Ottobre del 1918 per comprenderla a pieno. Il territorio della valle del fiume Don, il Donbass, nell’Ucraina orientale fu storicamente ribelle e libertario. Si ribellava già agli Zar e quando giunse il tempo dei bolscevichi, nel 1917, proclamarono la Repubblica Sovietica del Donec-Kivoj Rog ma i comunisti, con le mani ancora sporche del sangue reale dei Romanov, non vollero riconoscere al Donbass lo status di Repubblica autonoma e, ordinarono quindi che venisse accorpata alla Repubblica Sovietica Ucraina. Così il 10 marzo 1919 la Repubblica del Donec Kivoj Rog fu definitivamente assorbita dall’Ucraina sovietica.
L’indipendenza, il Donbass, la troverà solo nel 2015 attraverso una guerra civile che dal 2014 ancora non si placa. Nonostante la distrazione di massa dei media.
Nel 2015 con l’autoproclamazione della Repubblica Popolare di Doneck, considerata successore legale della Repubblica del Doneck Krivoj Rog, il Donbass trova finalmente l’autonomia dall’Ucraina, – sotto protezione certo dei fucili della Russia di Putin. Quella autonomia come richiesta già nel ’19 ai comunisti di Lenin e mai ottenuta. E se nel 1919 furono i leninisti a non riconoscere l’indipendenza ai russi del Donbass, oggi è l’intera comunità internazionale: l’Onu, la Nato, l’Ucraina di Zelensky, l’Unione Europea, e persino il Vaticano, a questo punto. Un popolo che nasce russo, prega russo, parla russo ma che il mainstrem italiano e occidentale continua a definire sulle pagine di copertine e media come “russofilo”, commettendo lo stesso imperdonabile errore (in malafede?) che si commetterebbe a chiamare il nostro eroe trentino Cesare Battisti, filoitaliano anziché italiano.

Il non riconoscimento di quelle terre da parte della comunità internazionale, Italia compresa, è quindi solo uno dei motivi alla base delle frustrazioni di Putin. Ma a spiegare definitivamente il suo revanscismo, la sua reazione che lo spinge ormai da anni verso forme eccessive di autocrazia, e di “zarismo di ritorno”, è l’Occidentale miope, che ha pensato di poter chiudere l’orso ferito togliendogli gli spazi vitali di una grande nazione storica. Senza usare le armi, ma dispiegandole attraverso una bianca guerra di isolamento e minaccia geopolitica.
Io credo inoltre alle voci di un Putin malato. Si dice un cancro maligno, ma non è confermato. La sua reazione scomposta allo stringersi del giogo occidentale potrebbe essere un mix di presagio della fine esistenziale e di rivincita di un popolo. Non dobbiamo dimenticare che la fine dell’URSS per Putin fu la fine anche di un’epoca in cui è immersa la sua origine e la sua gioventù.
E’ simbolico un passaggio nel suo ultimo discorso di 28 minuti, quando si riferisce ai russi di domani. “Io passerò” dice, qui c’è in ballo una questione per il popolo russo “di vita o di morte”. E anche le “Z” sui carri blindati russi potrebbero significare tante cose, ma non certo la zeta di Zelensky. Quella “Z” somiglia di più alla zeta di ZAR.
A Pratica di Mare, quando Berlusconi lo fece abbracciare con Bush, era il 2002. L’orso era buono ancora. Dopo l’attentato di New York, la Nato aveva già al suo interno Ungheria, Cechia, e Polonia. Si era già allargata oltre gli accordi di Berlino risalenti alla Caduta del Muro, ma non aveva ancora piazzato centinaia di avamposti strategico militari in ben 11 paesi dell’Est Europa: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania, Croazia, Montenegro, e Macedonia.
Ecco l’altro errore dell’Ovest. Un’espansione e un accerchiamento i cui benefici era prevedibile fossero assai minori dei costi. Ora io credo che nessun occidentale pensi davvero che la presenza dell’Ucraina in NATO, valga la pena di un terzo conflitto mondiale. Lo aveva previsto bene il repubblicano Henry Kissinger, pioniere della politica della distensione.

Eppure l’Occidente è andato avanti, tappandosi le orecchie alle lamentele ventennali di Mosca. Censurando anche alcuni episodi storici che possono (non giustificare) ma spiegare meglio la deriva zarista di Vladimir Putin. La rivoluzione che spodestò violentemente (con atrocità da ambo le parti), nel 2014, il presidente ucraino Viktor Janukovyč, il quale era stato eletto in libere elezioni, e che dovette rifugiarsi in elicottero al Cremlino per non essere assassinato. Un rovesciamento avvenuto con metodi violenti, a cui la polizia di Janukovyč rispose con altrettanta e ingiustificata violenza, ma che si fondava su un ossimoro: la volontà di una parte d’Ucraina di entrare nella civile Unione Europea rovesciando un presidente eletto con i forconi in piazza.
Fatto fuori (politicamente) Janukovyč, l’Ucraina finì dal 2014 sotto governi fantocci finanziati dagli USA. Quando Biden fu inviato da Obama presidente in Ucraina a gestire la transizione vigilata all’Occidente, Joe andò con tanti soldi statunitensi (molti arrivavano per la verità anche dall’Unione Europea) e lui riuscì solo a farsi gli affari di famiglia. Fece finta di non sapere che il figlio Hunter Biden lavorava a 50 mila euro al mese per un colosso del gas (Bourisma Holdings) nella Kiev appena liberata dallo scomodo putiniano Janukovyč, riuscendo a far rimuovere il procuratore generale d’Ucraina, Viktor Shokin, che indagava sui conti della Bourisma Holdings e su Hunter Biden.

Biden ha sempre avuto interessi non solo di Stato in Ucraina, ma molto personali e familiari sulle risorse energetiche di Kiev. E il rapporto personale tra il presidente USA e Putin è solo un’altra delle cause alla base di questa guerra. Ci sono testimoni di una frase di Biden a Putin: “Presidente nei suoi occhi io non vedo l’anima”. Non si spiega questo conflitto senza chiarire il rapporto di odio tra i due uomini. Senza comprendere gli interessi che su Kiev mosse la presidenza Obama. Se ci fosse Trump, Putin non avrebbe aperto il fuoco. Ha ragione l’ex presidente infatti a ricordarci che Putin attaccò la Georgia sotto Bush, la Crimea sotto Obama, e ora l’Ucraina sotto Biden. C’è un’arte che si chiama diplomazia e che serve a scongiurare i conflitti. Ora noi italiani ci ritroviamo al bordo di un baratro e della terza guerra mondiale con Luigi Di Maio a ministro degli esteri. Non proprio un modo rassicurante di andare incontro a un conflitto totale.

Quello che poi non ci viene raccontato dai media occidentali – i nostri media – è che il non riconoscimento internazionale alle autoproclamate repubbliche del Donbass, (Donetsk e Luhansk) provocò una delle stragi che è tra le altre ferite alla base del conflitto odierno e della rabbia di Putin: “la Strage di Odessa”, avvenuta il 2 maggio 2014 e in cui 150 russi persero la vita bruciati vivi da un incendio appiccato dai nazionalisti ucraini, che oggi combattono al fianco di Zelensky per fermare l’orso russo. Quelle persone furono bruciate perché colpevoli di protestare contro il governo di Kiev che aveva revocato loro il diritto di insegnare la lingua russa nelle loro scuole dell’Ucraina orientale. Questi estremisti, che spesso si sono riferiti a Hitler e al nazismo, hanno ispirato le parole di Putin quando ha accusato il governo di Kiev di essere un gruppo di “drogati” e di “nazisti”. Che non vuole riconoscere una Crimea che votò per il 90% di tornare ad essere Russia dopo il regalo di Kruscev a Kiev. Quando i comunisti trattavano i popoli come merce da banco.
In questo scenario, l’unica cosa che l’Occidente dovrebbe fare è riconoscere gli errori commessi e trovare il giusto compresso per far vincere la pace, prima di ogni cosa. E per farlo bisogna concedere a Putin qualcosa di quello che chiede. Non penso che Putin sia Hitler e che voglia assoggettare l’Europa dell’Est, ma sono altrettanto sicuro che se le sue richieste non saranno soddisfatte andremo allo scontro finale. Sono sicuro che non gli interessi prendere Kiev ma solo – come sostiene – deamericanizzarla, per equilibrare le aree di influenza. Non penso affatto come dice qualcuno in queste ore che voglia invadere la Polonia come Hitler.
Del resto – come dice un mio amico per sdrammatizzare – Putin ha sempre preferito il Polonio alla Polonia. Ma certo se frusteremo il vecchio orso di Mosca sarà guerra. Ed è evidente ormai che Putin quando spolvera le testate nucleari non bluffa ci mette alla prova ma di certo non bluffa. Sta a noi capire se conviverci, portarlo dalla nostra parte come era riuscito a Silvio Berlusconi, oppure suicidarci in una guerra mondiale senza più nemmeno il “senso”, se volete, delle ideologie, in cui l’atlantismo è degenerato da modello di difesa a modella di offesa.
riccardo.corsetto@gmail.com
(L’UNICO)
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