Ho sempre avuto una sorta di reverenziale timore nell’avvicinarmi alla vicenda di Francesco Cecchin ma, ricorrendo quest’anno il quarantennale della sua scomparsa, voglio fare una doverosa eccezione. Colgo l’occasione dell’evento svoltosi ieri sera, lunedì 17, nel teatro parrocchiale di Via Zandonai ed avente per titolo “Francesco Cecchin. Lui vive. Lui combatte!”. Una piece teatrale intesa a rievocare la tragica vicenda dell’aggressione del 28 maggio 1979, seguita dall’agonia e dalla morte di Francesco, avvenuta il 16 Giugno dello stesso anno, accompagnate dall’odio, dall’indifferenza dalla malafede e dalla reticenza di pubbliche autorità, all’epoca tutt’altro che imparziali.
Francesco era militante dell’allora Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi, una scelta che, all’epoca poteva comportare seri guai, dall’emarginazione ed ostracizzazione a scuola, nell’università o sul posto di lavoro, sino all’aggressione fisica ed, ahimè, anche alla morte, come avvenuto in questo ed in tanti altri, troppi , simili casi. Avere un’idea della ribellione giovanile e della Rivoluzione diversa, che uscisse dai parametri prestabiliti del “politically correct” allora, in un’Italietta sconvolta da crisi economica ed immersa in un clima di strisciante guerra civile, (retaggio dell’ultimo, tragico conflitto mondiale…), significava trovarsi di fatto, dall’altra parte della barricata e doverne perciò subire tutte le conseguenze.
Non era una guerra tra bande giovanili, né, come a qualcuno piacerebbe, uno scontro tra rivoluzionari e reazionari, ma tra due opposte idee del mondo e della Rivoluzione, l’una imperniata sull’internazionalismo proletario ed il materialismo storico di Marx, Lenin e Stalin, avente nel Pci e nell’arcipelago della sinistra radicale i propri cantori, l’altra imperniata sul vitalismo e l’irrazionalismo dei vari Nietzsche, Evola, Mishima, sul socialismo di Proudhon e sull’esperienza del Ventennio. L’Italietta di allora, nonostante la propria appartenenza al Patto Atlantico e gli esecutivi a maggioranza cattolica, pendeva paurosamente a sinistra.
Il Pci era il primo partito comunista dell’Occidente ed il secondo partito d’Italia e nonostante non stesse ufficialmente al governo, condivideva “de facto” il governo del Paese con i cattolici, sia a livello locale che attraverso una propria forte penetrazione a livello istituzionale che mediatico, (un po’ come accade oggi…). Il che lascia intravedere il sospetto che, al di là delle chiacchiere sull’anticomunismo, tale coabitazione fosse fortemente voluta ed auspicata anche da chi, all’apparenza, propalava il contrario ( e prova ne sia che, alla caduta del Muro di Berlino, il Pci, sotto nuove spoglie, sia in Italia sopravvissuto ed abbia prosperato alla grande, sino a governare direttamente il Paese, contrariamente a quanto accaduto con Dc e Psi…sic!).
In questo bel clima, il giovane militante nazional-rivoluzionario, Francesco Cecchin, viene proditoriamente assassinato. Per il fatto sono accusate tre persone, indicate tra tre militanti del Pci, di cui due verranno solamente indiziati ed il terzo, di galera se ne farà ben poca. L’inchiesta si concluderà in un inconcludente groviglio di carte, lungaggini e rinvii, nonostante le indagini svolte dai militanti ed amici di Francesco, nonostante l’indignazione del quartiere per la morte atroce di un giovane di 17 anni. Francesco, inseguito, spietatamente aggredito e buttato giù da un muro, lascia un vuoto nell’anima dei suoi fratelli e militanti, ma lascia anche la chiara consapevolezza che le idee non muoiono mai, che la morte fisica, è solo un evento momentaneo, perché chi muore per un’idea, muore da eroe e vive per sempre, nel principio solare che, quell’idea, ha voluto incarnare.
E questo al di là di schemi, ideologie, scenari politici che, possono sì mutare ed imporre approcci di differente qualità ma che, a questo principio non potranno mai derogare. E così, dopo quarant’anni, ti ritrovi davanti ad un teatro i vecchi amici e militanti di una volta. Ti trovi a ripercorrere con la memoria vicende, atmosfere, volti e colori di una volta, in preda ad uno strano mix di rabbia, rimpianto e nostalgia. Nostalgia di un tempo in cui, contrariamente a quanto accade oggi, il nemico lo avevi di fronte, lo percepivi in tutta la sua fisica presenza. E vivevi la cosa in uno spirito di folle e gioiosa esaltazione. Nel nostro piccolo, allora, ci sentivamo un po’ tutti guerrieri.
Volevamo cambiare un mondo che sembrava, da un momento all’altro, voler mutare radicalmente rotta. Aspettavamo lo scontro finale, quel “Ragnaròk”, che non venne mai, rinviato indefinitamente e perduto nelle nebbie della Post Modernità. Oggi, invece, nel grigiore di un mondo globalizzato, il nemico è incolore, inodore, insapore, ha accantonato eskimo, borse di tolfa, urla e slogan…A serata conclusa, nell’accomiatarmi da vecchi amici e militanti, nel ringraziare tutti quelli che hanno suonato e recitato, mi rimane invece, un nodo alla gola e quella strana inquietitudine che cerco di esorcizzare, percorrendo in motorino le silenziose e deserte strade di una metropoli, alle prese con i primi calori estivi.
Che la vita debba andare avanti è fuor di dubbio, che cambino scenari e contesti anche, ma che, in mezzo al tram tram, ai problemi della quotidianità, al grigio conformismo umano e sociale, si sappia trovare il modo di essere anticonformisti, di dare un sia pur piccolo, segnale di “scorrettezza”, politica e spirituale, fregandosene delle altrui, occhiute opinioni, questo oggi significa essere vitali, aderire ad un modello umano”altro”, da quello che Lor Signori vorrebbero imporci ed invece non riusciranno mai a fare. Con buona pace per “vecchie” e buonisti d’ogni sorta e risma….
Umberto Bianchi
Facebook Comments