Lo scenario è quello di una Catania di metà Ottocento, divisa tra i nostalgici del governo borbonico e i liberali che invece vedono favorevolmente l’unità nazionale dell’Italia. Protagonosta è la famiglia Uzeda, nobile famiglia catanese. La storia parte con la morte della principessa Teresa Uzeda di Francalanza, occasione tragica che raduna tutti i familiari per la spartizione dell’eredità. E sarà proprio la lettura del testamento, con il quale non è stato nominato erede universale solo il primogenito Giacomo ma anche il prediletto terzogenito Raimondo, ad accentuare i contrasti e le contraddizioni della famiglia, in un tempo nel quale ormai la nobiltà è giunta al declino.
Contraddizioni dei padri benedettini, che nel buio della notte cessano dalla preghiera per dedicarsi ai vizi e alle dissolutezze. Di don Blasco, che nella scena diventa l’io narrante, che serba rancore per il nipote diventato priore e che aizza i propri familiari a fare carte false pur di accaparrarsi una parte maggiore di eredità. Ma anche del figlio primogenito Giacomo, che rimette in circolazione delle vecchie cambiali, ormai da tempo saldate, intestate al fratello Raimondo, pur di sottrargli la parte di eredità. E dello stesso Raimondo, che promette amore eterno alla propria moglie Matilde mentre di nascosto si dedica a donna Isabella.
Video pubblicato dal Teatro Quirino su Facebook.
Scaramucce familiari che diventano metafora delle grandi contraddizioni che si stanno consumando nella società del tempo, in una Sicilia che si trova nel pieno della “questione meridionale”, in quella fase di transizione che la porterà verso l’Italia “una e costituzionale”. Una società divisa tra i nostalgici che vogliono mantenere il governo borbonico del Regno delle Due Sicilie e i liberali che aspirano invece all’unità nazionale. I primi rappresentati, tra gli Uzeda, da don Blasco, che temeva la perdita dei beni ecclesiastici; gli altri dal duca Gaspare, interessato dagli incarichi prestigiosi che gli sono stati promessi.

È una critica al trasformismo quella che l’autore del romanzo da cui è ispirata la sceneggiatura, Federico De Roberto, vuole rendere evidente. E lo fa attraverso una famiglia che sfrutta tutte le occasioni possibili per accaparrarsi ricchezza e potere, anche al punto di cambiare la propria visione adattandosi ai tempi e ai mutamenti sociali. Un camaleontismo così evidente che, dopo la vittoria dei piemontesi e l’entrata di don Gaspare in Parlamento, persino don Blasco, feroce difensore dei Borboni, cambia idea e si schiera con i Savoia, rendendosi conto che così facendo poteva ottenere ancora qualcosa. E la storia si chiude così, con don Blasco, ormai “borghesizzato”, che racconta tutte le miserie degli Uzeda, che si nascondono dietro una nobiltà solo apparente.
A portare in scena “I Viceré” al teatro Quirino di Roma fino al prossimo 4 dicembre è un cast d’eccezione. Protagonista, nei panni di don Blasco, è Pippo Pattavina. Sul palco insieme a lui Sebastiano Tringali, Rosario Minardi, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Giampaolo Romania, Francesco Maria Attardi, Elisa Franco, Pietro Barbaro, Giovanni Fontanrosa, Alessandra Falci e Giuseppe Parisi. La regia è affidata a Guglielmo Ferro, figlio dell’indimenticato attore catanese Turi Ferro.
Francesco Amato
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