“Metti il nome”, Lorenzin e i social media manager bravi

Lorenzin come Conte. Scivoloni che non possono passare inosservati e che, invece di manifestare solidarietà, offendono la memoria di persone che per servire lo Stato hanno pagato con la vita

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Se triste è la morte di un servitore dello Stato, ancora più tristi sono i necrologi scritti come in un modulo prestampato. È il caso dell’ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che all’assassinio in Congo dell’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci ha dedicato un tweet imbarazzante. Così imbarazzante che lei stessa, dopo pochi minuti, l’ha corretto. “Mi stringio – e sulla coniugazione sbagliata del verbo sorvolerei ben volentieri – attorno alle famiglie dell’ambasciatore Luca Attanasio e del giovane carabiniere (metti il nome)“, ha scritto. Sì, proprio così: metti il nome. Come in un qualsiasi modulo da compilare della tanto odiata burocrazia italiana. Un format generico che si può adeguare a qualsiasi situazione. È semplice, del resto: basta mettere il nome.

Si potrà obiettare che non è lei in prima persona a gestire i profili social. Certo, sicuramente si affiderà a qualche professionista, ad un ghost writer che cura la comunicazione per suo conto. Ma anche questo non giustifica, però, un tweet così sgradevole. È un errore grossolano, certamente causato dalla fretta di condividere. Ma proprio la fretta è sintomo di un post non sentito, scritto solo “perché si deve fare”, a cui dedicare solo qualche minuto, per lanciarlo sui social e passare ad altro. Mentre la memoria, per chi lo Stato lo rappresenta in Parlamento, in casi come questo dovrebbe essere un dovere. Perché non si tratta di un carabiniere qualsiasi, ma di quel carabiniere, di Vittorio Iacovacci, che ha un suo nome e una sua storia. Come ha un nome e una storia l’ambasciatore Luca Attanasio, anche lui vittima dell’agguato in Congo di lunedì scorso.

tweet lorenzin
Il tweet “incriminato” dell’ex ministro Beatrice Lorenzin

Un errore talmente grossolano, che è stato subito corretto dalla deputata del PD. Ma, come si suol dire, forse la pezza è stata peggio del buco. Nel tweet “nuovo”, infatti, continua a non figurare il nome del “giovane carabiniere”, a cui è stato semplicemente tolto il fastidioso “metti il nome”. E anche la terza vittima, Musthapha Milambo, non viene chiamata per nome dalla Lorenzin, che si limita a scrivere “l’autista congolese del convoglio“. Insomma, se l’ex ministro si affida ad un social media manager, probabilmente dovrebbe sceglierne uno migliore.

L’errore, del resto, è ancora meno accettabile se contestualizzato nella parte politica a cui appartiene la deputata. A prima vista potrebbe sembrare solo un nome, ma è proprio il nome che dà dignità alle persone, è il nome che le identifica, e che le fa passare da “giovane carabiniere” a “quel carabiniere lì” a cui servire lo Stato è costata la vita. Che lo rende un essere umano, insomma. Tanto più se dell’hashtag #restiamoumani riguardo alle politiche di accoglienza dei migranti il suo partito ne ha fatto l’albero maestro.

Ma la Lorenzin non è la prima e nemmeno la sola ad essere caduta su simili errori. Prima di lei c’è incappato l’ormai ex Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Nel discorso in occasione del voto di fiducia alla Camera dei Deputati del suo primo governo. Un discorso che era già diventato famoso per i fogli disordinati, che hanno costretto Conte ad iniziare a braccio il suo discorso, mentre l’allora vicepremier Di Maio li rimetteva in ordine in fretta e furia. Ecco, proprio in quell’occasione, surreale già alla sua partenza, l’ex Premier ha manifestato la sua solidarietà al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Una delle cose che più mi ha addolorato nei giorni scorsi è stato quando c’è stato un attacco alla memoria di un suo congiunto sui social… ora non ricordo esattamente“.

Sì, “un suo congiunto”. Un termine diventato poi un mantra della politica di Conte, insieme agli “affetti stabili”. Il problema, in questo caso, è che quel congiunto era il fratello di Mattarella, trucidato dalla mafia nel 1980 mentre ricopriva l’incarico di Presidente della Regione Siciliana. E che aveva anche un nome. “Si chiamava Piersanti!“, gli ricordò giustamente Delrio in quella stessa occasione. Va bene la tensione e l’emozione del momento, si può accettare un congiuntivo sbagliato o una parola inglese pronunciata male, a cui peraltro la politica nostrana ci ha ormai abituati. È tollerabile persino sentir dire al Presidente del Consiglio che la Pasqua rappresenta il passaggio dalla schiavitù all’Egitto, quando invece alla schiavitù il popolo ebraico era costretto proprio in Egitto.

Ma errori come questo non possono essere veniali. Offendono la memoria e – ancor più grave – la dignità degli esseri umani. Quella stessa dignità che, invece, dovrebbe essere l’obiettivo principale di tutti quelli che rivestono ruoli di responsabilità nello Stato.

Francesco Amato

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